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Il sogno realizzato di Graziano

25.03.2006 - Abbiamo riferito più volte della vicenda di Graziano Bortolotti, l’amico scomparso tragicamente dopo aver visitato l’Africa. Per onorarne la memoria familiari, parenti ed amici hanno voluto realizzare una “maternità” nel villaggio di Godjeme (Togo). La struttura è stata inaugurata solennemente il 1° aprile del 2005. Di seguito le impressioni ed i ricordi di p. Elio Boscaini e di Cristina, Riccardo e Roberto Bortolotti.

Giornata memorabile questo 1 aprile 2005 per il villaggio di Godjeme, sperduto nella “brousse” a più di 15 km da Tabligbo, cittadina del sud-est del Togo. E’ il giorno previsto per l’inaugurazione della Maternità-Dispensario sorta in ricordo di Graziano Bortolotti e voluta dalla famiglia e dagli amici per ricordarne la figura.
Tre anni fa, a gennaio, la Provvidenza aveva condotto i passi di Graziano e Cristina – una meravigliosa coppia di Bolzano – nella comunità dei Missionari Comboniani di Tabligbo. Erano accompagnati da quell’innamorato dell’Africa che è Alpidio Balbo, sempre bramoso di inventare qualcosa da fare per alleviare le sofferenze di questo continente martoriato. Dei tre missionari,due, i padri Bruno Gilli e Donato Benedetti sono della Val di Cembra, il primo di Albiano e il secondo di Segonzano, il terzo dal nome del sole, Elio, è originario di Fumane in Valpolicella. E’ padre Donato, il giovane del gruppo, che fa da guida alla comitiva nella scoperta della realtà socio-missionaria della parrocchia di Tabligbo. E’ così che, percorrendo strade che sanno più da pista che da asfalto, col fuoristrada di Balbo raggiungono anche il villaggio di Godjeme dove Graziano è particolarmente colpito dall’abbandono in cui vive quella popolazione. Da un anno esiste a Godjeme una “casa di sanità”che garantisce l’indispensabile alla gente del posto. E’ costituita da tre capanne: una “sala per degenti o sala travaglio” -due materassi sul pavimento-, una “sala parto”-un tavolo fatto con tre assi inchiodate insieme,- e una “farmacia” -un paio di scaffali con qualche scatoletta e due o tre mucchietti di pillole sciolte! Balbo, conoscendo già da prima la situazione, vuole creare qui, con l’aiuto dei Comboniani di Tabligbo, un dispensario. Sotto una tettoia di paglia si riuniscono il capo-villaggio e gli anziani i quali danno il loro assenso e mettono a disposizione il terreno necessario. Si fa ritorno a Tabligbo e il mattino seguente Graziano, Cristina e Balbo lasciano la missione.
Tre settimane dopo, tornati in Italia e ripreso ognuno il proprio lavoro, la tragedia colpisce Graziano: col suo elicottero precipita, a pochi chilometri della casa natale di padre Elio, tra i vigneti della Valpolicella dopo un estremo tentativo di non finire sulle case disperse tra quei campi.
Ed ecco la tragedia trasformarsi in grazia. Cristina e i figli cominciano a chiedersi come ricordare la figura del loro caro che dal suo ultimo viaggio era tornato col desiderio di “fare qualcosa di bello per l’Africa”. Il pensiero torna là dove Graziano era rimasto particolarmente scosso e l’idea di aggiungere una maternità al progetto del dispensario a Godjeme comincia a prendere corpo. Balbo ed i missionari approvano con entusiasmo l’idea e la famiglia mette a disposizione i fondi raccolti anche tra parenti ed amici. Viene coinvolta la popolazione di Godjeme e sotto la guida di padre Antonio la costruzione comincia a sorgere da terra. Si decide di realizzare un’unica struttura maternità- dispensario a nome di Graziano, degli alloggi per chi ci lavorerà, un laboratorio per le analisi-,un “appatame” (tipica costruzione circolare aperta lateralmente) e due serbatoi per raccogliere l’acqua piovana.
I lavori procedono lentamente, le difficoltà logistiche non mancano, le piogge tagliano il sentiero...ma nessuno si arrende, anzi gli sforzi raddoppiano e alla fine quel “qualcosa di bello” è là con i suoi colori sgargianti all’africana, pronto ad accogliere mamme in attesa ed ammalati, obbligati altrimenti a lunghe distanze per trovare assistenza. Il ricordo di partorienti che muoiono per strada o nascituri che non riescono a sopravvivere sparirà come ...neve al sole!
Cristina e i suoi due figli Riccardo e Roberto scendono in Togo con Balbo. L’emozione li prende già a scorgere da lontano la costruzione. L’indomani – 1 aprile - sempre accompagnati da Alpidio si torna a Godjeme. Questa volta è padre Elio che si unisce alla comitiva. Attorniato dalla gente, con il capo-villaggio in prima fila, e da una turba di bambini dagli occhi meravigliosi, con Cristina e figli tra la folla, padre Elio celebra l’Eucarestia in memoria di Graziano la cui foto troneggia davanti alla gente. E’ un momento di profonda commozione per la famiglia ma di grande gioia per la gente: dalla morte di Graziano sboccia speranza, certezza di vita. Si celebra l’ottava di Pasqua, il mistero di morte e risurrezione di Gesù, realizzatosi anche nella persona di Graziano. Terminata la Messa, si benedice la struttura, e poi “scoppia “ letteralmente la festa. La gente si abbandona alla musica, al canto, alla danza in onore degli ospiti e nel ringraziamento a Graziano che- come ha detto padre Elio nell’omelia- si sta affacciando alla finestra del paradiso per contemplare lo spettacolo. Si passa ai ringraziamenti ufficiali, alla promessa-impegno di continuare a seguire la struttura. Si farà anche una scuola? Di certo ,il legame tra la famiglia Bortolotti e amici e la gente di Godjeme non si fermerà qui. Sono le 13.30 quando gli ospiti, dopo un gustoso pranzo offerto dal villaggio, tra la commozione della piccola folla questa volta, riprendono la strada per il campo-base, la missione comboniana di Tabligbo.
La sera, ancora un momento tra italiani,per godersi il film della giornata girato da quell’impareggiabile foto-reporter che è Alpidio Balbo che, con acrobazie a volte, ha voluto immortalare l’avvenimento di Godjeme.
Grazie, Signore, perché continui ad operare meraviglie e ti ricordi sempre dei nostri fratelli africani più poveri e bisognosi! E grazie a quel regista meraviglioso che è Alpidio che, giocando dietro le quinte, ha saputo realizzare uno stupendo quadro di vita africana!

p. Elio

***

Dopo tre anni sono tornata con Alpidio ed i miei due figli in Benin e Togo sulle orme di Graziano, per trovare anche qui qualcosa di lui e per inaugurare quella Maternità che lui non è riuscito a realizzare ma che adesso è lì, in mezzo alla savana – “un fiore nel deserto” - come ha detto suor Dolores, una seconda Madre Teresa, che da un paesino della Val di Cembra è partita tanti anni fa alla volta dell’Africa.
Giunti alla fine del nostro viaggio, aspettando di andare all’aeroporto, sono seduta in riva all’oceano sotto un cielo sfavillante di stelle, pari in bellezza – come disse Graziano – solo a quello che si vede in alta montagna.
Ascolto il silenzio della notte africana rotto solamente dallo stormire del vento tra le foglie di palma e dalle onde che, dopo un viaggio da chissà dove, arrivano rotolando sulla riva.
Solo dieci ore dopo, con negli occhi ancora le mille diverse immagini, a volte sconvolgenti e drammatiche, altre volte dolci e commoventi, lo sbarco all’aeroporto di Parigi. Non più buie capanne di paglia e fango sparse nella “brousse” né pozzanghere di acqua putrida a cui donne affaticate, bambini seminudi ed animali scheletrici vanno a dissetarsi, non più rullo di tam-tam per un funerale o per una festa – perché l’Africa è anche questo: gioia ed allegria nella miseria più angosciante!
Al posto di tutto ciò superbe luminose strutture di acciaio e vetro, vetrine luccicanti piene di oggetti spesso tanto belli quanto inutili, bar e ristoranti con ogni ben di Dio, voci che annunciano voli da e per qualsiasi parte del mondo!
Lo choc è veramente forte! Si rimane sbalorditi, si fa fatica a rimettere a fuoco quello che è il nostro mondo, la realtà in cui siamo immersi. È per questo che ora che sono di nuovo a casa, per prima cosa sento il bisogno di riordinare i miei pensieri, di elaborare le mie emozioni che sono così varie ed intense da risultare difficili da descrivere. Le immagini impresse nel cuore e nella mente sembrano chiedere con urgenza di essere sempre nuovamente ricordate, come se ciò mi aiutasse in qualche modo a pagare quel debito di gratitudine che ho nei confronti di chi, pur non avendo niente, tanto mi ha dato, tanto mi ha insegnato!
Pierre si chiama il piccolo venditore di noccioline che sogna di diventare maestro. Mi si avvicina all’imbrunire piangendo e singhiozzando disperato. Quando riesco a calmarlo mi dice che ha perso il guadagno della giornata – l’equivalente di 1 euro e mezzo! A casa, nella capanna a un’ora di cammino, lo aspetta la mamma con i tre fratellini. La sua gioia alla vista di una camicetta nuova e di un inaspettato guadagno è tutta in quel sorriso che torna ad illuminare il suo bellissimo volto!
Nel villaggio di pescatori, poche capanne in riva al mare circondate da un recinto di foglie di palma intrecciate, bambini e galline che razzolano dappertutto, gli uomini intenti a rammendare le reti ci danno il benvenuto con grande cordialità. Alcuni di loro vengono dal Ghana per la stagione della pesca, poverissimi tra i poveri! Sembra che non provino alcuna invidia o rancore nei confronti di noi “turisti”, anzi sono felici di poter scambiare qualche parola con noi.
Neppure in un luogo che rievoca l’inferno dantesco, nel carcere dove i detenuti hanno meno di un metro quadro di spazio a testa, l’anima africana ha perso le sue qualità migliori. Un ragazzo mi si avvicina e mi dice che si ricorda di Graziano e che ha pregato per lui quando ha sentito della disgrazia. Un altro vuole assolutamente darmi un “cadeau”: un tubetto di plastica, che probabilmente conteneva delle compresse, rivestito con variopinti fili intrecciati: un capolavoro di abilità e pazienza! Un terzo, non avendo niente altro, mi regala un sacchetto di plastica vuoto!
“Noi abbiamo la speranza!” Questa frase dettami da un giovane infermiere è forse il segreto di quest’Africa sofferente che è capace di sopportare con pazienza e dignità condizioni di vita per noi inconcepibili e che ha comunque sempre in serbo un regalo prezioso che ognuno può portarsi a casa: il suo splendido sorriso!

Cristina

***

Partire per il Togo per l’inaugurazione della maternità-dispensario, frutto della tragica scomparsa del mio papà, mi pareva dopo oltre tre anni di separazione come un riportarlo in vita in un’altra dimensione. Il viaggio era carico di solennità, di spirito cristiano e del sentimento di unione tra la mia famiglia e l’amico Alpidio, il che diede fin dall’inizio una cornice di grandissima profondità spirituale a quei giorni. Subito ci trovammo immersi nelle emozioni fortissime dell’Africa più povera e più genuina. Mentre ripercorrevo gli stessi luoghi e le stesse piste che tre anni prima avevano visto passare Alpidio ed i miei genitori con la loro vivace allegria e la loro profonda commozione, mi pareva di rifare di nuovo tutti assieme, anche con il mio papà, quello che era stato il suo ultimo viaggio.
Non era la prima volta che visitavo missioni africane, ma questa volta ho visto e vissuto le realtà più nascoste e forti. Di situazioni stravolgenti ce ne sono state tantissime: dalle carceri in cui i detenuti vivono come bestie senza alcuna garanzia giuridica, alla “maternità” – una capanna di paglia e fango – che tanto aveva commosso il mio papà, ai villaggi privi di acqua dove la gente malata e malnutrita cerca di tirar fuori qualche goccia di liquido melmoso da buche scavate con le mani. Non me ne capacitavo: un mare infinito di povertà, ingiustizie e morte prematura dove con soli 5 Euro spesi in analisi preventive si può salvare la vita di un neonato.
Nonostante vedessi le scuole, le strutture sanitarie, i pozzi miracolosi costruiti grazie ad Alpidio, ogni tanto perdevo la speranza. Troppa povertà e troppo poche persone che se ne rendono conto e fanno davvero qualcosa. Ma dopo una serie di giornate ed esperienze preziosissime, durante una visita alla missione di Tabligbo ed all’ospedale di Kouve diretto da suor Dolores ho maturato una convinzione. In questa struttura, che mi sembrava un’oasi miracolosa in mezzo al deserto, abbiamo fatto visita ad alcuni malati terminali di AIDS. Su delle brande c’erano sdraiati alcuni ragazzi moribondi. Nonostante avessero i giorni contati e fossero ormai più di là che di qua, accolsero le suore infermiere con radiosa gioia e un sorriso pieno di amore. E le suore con altrettanto amore e gioia sorridevano e li accarezzavano. Pensare a questo momento ancora oggi mi fa venire le lacrime. Ma proprio esperienze come queste che ho vissuto assieme ad Alpidio, a padre Elio, padre Antonio, padre Bruno, suor Dolores e a tanti altri mi hanno scosso violentemente e rinvigorito come non mai la mia Fede. Questo viaggio mi ha convinto che senza Amore e Carità la vita sarebbe un gioco a somma zero: si nasce, si vive senza queste virtù, e si muore. Ma dove sarebbe il senso di una vita così? Gli obiettivi materiali sono sì comodi e attraenti, ma non le daranno da soli un senso, non sono solide fondamenta su cui edificare la propria vita. Solo chi semina amore, carità e voglia di vivere può star sicuro di aver dato un senso alla propria vita, di aver dato il proprio contributo e di aver rispettato il miracoloso dono che è la vita nostra e della nostra terra.
Grazie, grazie per sempre a queste splendide persone che mi hanno fatto capire una delle cose più importanti della vita. Con la loro Fede hanno rafforzato la mia. E oggi, quando mi scontro con i mille problemi del quotidiano, quando sto per perdere la pazienza o la speranza, penso all’energia e alla carità dei missionari, al sorriso dei moribondi, a quanto siamo fortunati noi a cui non manca niente, e subito mi rendo conto di quanto sia piccolo il mio problema del momento.
Grazie infinite ancora ad Alpidio Balbo, a padre Elio e padre Antonio per aver dato alla nostra famiglia ed ai nostri amici la possibilità di realizzare l’ultimo desiderio di solidarietà del nostro amato capobanda. Quest’opera, grazie alla quale tante vite saranno salvate, fa così rifiorire splendidamente l’amore, la generosità e la voglia di vivere che lui ha seminato durante il suo cammino terreno.

Roberto

***

Appena si schiusero le porte della sala arrivi del misero aeroportino di Cotonou per accogliere i passeggeri del volo da Parigi, unico contatto bisettimanale di questa poverissima striscia di terra dimenticata dall’umanità con il “primo mondo”, fui assalito dall’inconfondibile profumo dell’Africa. È una sensazione che avevo provato fin dalla prima volta che avevo visitato questo continente incredibile, cosi pieno di bellezze naturali ma anche di contraddizioni e di miserie inimmaginabili. Già... la prima volta... come in un film rividi le immagini dei primi viaggi con la mia famiglia e i padri missionari della Consolata in Etiopia, Kenya e Tanzania, vent’anni prima... come eravamo stati felici assieme, quante esperienze indimenticabili avevamo vissuto e come ci aveva sempre accompagnati il nostro amore per l’Africa, crescendo negli anni! E poi l’incontro e la grande amicizia con questa persona straordinaria che è Alpidio Balbo, il quale tra le sue mille attività aveva reso possibile quello che sarebbe stato l’ultimo viaggio dei nostri genitori assieme!
E pensando alle tante miserie incontrate durante questi viaggi, mi tornò alla mente la faccia sorridente ed allegra di mio padre, che era in grado di sdrammatizzare anche le situazioni più tristi e con le sue battute ed i suoi scherzi riusciva sempre a strappare un sorriso a chi era disperato, sorriso che spesso si trasformava in una risata contagiosa fino ad avere tutti le lacrime agli occhi... una volta tanto per l’allegria e non per le sofferenze.
Era durato tutto pochi attimi... poi queste immagini sbiadirono e rimettendo a fuoco quello che avevo davanti agli occhi, ecco comparire in mezzo a tante face scure la chioma bianca ed il volto sorridente di Alpidio, pieno di energia ed entusiasmo come sempre, che si sbracciava tra la folla dandoci il benvenuto... E da lì è cominciato un viaggio che non dimenticherò mai, battendo le stesse piste polverose sulle quali qualche anno prima era passato nostro padre, vedendo alcune delle stesse situazioni che lo avevano scosso così profondamente da farlo tornare cambiato, diverso, forse anche più tranquillo e sereno, lui che non stava mai fermo un attimo, ma sopratutto risoluto a “fare qualcosa di concreto e farlo velocemente” assieme ad Alpidio, per aiutare questo continente sofferente.
La prima notte in una missione a Cotonou, l’intenso incontro con il nunzio apostolico il giorno successivo, i lunghi spostamenti in jeep con Bachirou (durante i quali Alpidio si fermava a farci bere solo pochi attimi prima che morissimo disidratati), la casa del Gruppo Missionario a Parakou, oasi di serenità in un oceano di miseria, la gioiosa Pasqua celebrata in un paesino sperduto nella “brousse”, che aveva avuto tutto, acqua, scuola, chiesa e dispensario grazie all’intervento del Gruppo Missionario, lo shock della visita alla prigione di Parakou, dove la libertà di un detenuto “costa” poche decine di euro... e poi il Nord del Benin, con il suo popolo fiero che vive in piccole fortezze di fango, la sosta a Kossou dove Alpidio ci ha fatto la sorpresa di farci assistere ad un concertino della banda della tribù locale, infine il passaggio in Togo e la discesa verso sud... e sempre, ovunque, in ogni luogo e in ogni momento decine, centinaia di bambini, vecchi, donne e uomini che salutavano il passaggio di “Papà Balbo’”, gli correvano incontro, lo abbracciavano, lo baciavano, gli esponevano i loro problemi, gli chiedevano aiuto...
Dopo questo lungo viaggio di avvicinamento arrivare a Godjeme è stata per me un’esperienza permeata di misticismo. La gente che ci veniva incontro sorridente mentre sulla pista polverosa ci avvicinavamo alla nuova maternità, i canti e le danze durante la bellissima liturgia celebrate da padre Elio, la piccola processione per benedire le singole stanze dell’edificio, il commovente “banchetto” preparato dalle donne di Godjeme che dividevano il loro poco cibo con noi, ma sopratutto la gioia e i sorrisi di queste persone che non posseggono niente di materiale eppure riescono a trasmettere una leggerezza, un vivere alla giornata dettato dalla consapevolezza che il futuro è nelle mani di Dio e solo di Dio, sono impressioni profonde che si contrappongono in modo stridente a molti dei valori su cui è basato il “primo mondo”.
Vedere quello che erano riusciti a fare sorgere dal nulla padre Elio e Padre Antonio, grazie all’impegno di Alpidio, di tutta la famiglia, degli amici e di tutti quelli che avevano voluto onorare nostro padre, fu come riaverlo lì tra noi, essere riabbracciati da lui e toccare con mano l’insegnamento più grande che ci ha lasciato, non con le parole ma con il suo esempio: la generosità è vita e la vita è un dono.

Riccardo

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