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A contatto col dolore

6.11.2013 - È stato un mese molto intenso quello che ho trascorso insieme a mia moglie nel Benin. Non avevo chiaro cosa mi aspettasse né il tipo di patologie da dover affrontare.
Ho trovato un ospedale ben costruito e ben attrezzato con una sala operatoria efficiente anche per i nostri standard europei. Un ferrista ed un anestesista bravissimi, disponibili e pure simpatici. Per le visite ostetriche-ginecologiche ho avuto a disposizione un buon ecografo ed un microscopio. C’era un discreto studio radiologico che mi è stato molto utile per le numerosissime pazienti affette da sterilità per chiusura delle tube causata da infezioni interne, pregressi aborti e gravidanze.
La donna in quella zona rurale non vale nulla, conta solo se fa molti figli e quindi la sterilità è una tragedia. Naturalmente vi sono anche molti maschi sterili, ma nessuno finora ha preso in considerazione la questione e parlarne è stato alle volte un po’ rischioso anche se, per correttezza professionale, ho sempre affrontato l’ argomento cercando di condurre la problematica in modo da far comprendere la differenza, concetto sconosciuto, tra sterilità e potenza sessuale. Ho eseguito un alto numero di tagli cesarei a tutte le ore del giorno e della notte, spesso in condizioni di grave sofferenza materna e fetale. È stato appagante perché ai neonati veniva dato il nome Dario e, se femmina, Maria Adelaide come mia moglie.
Lei, da brava psicologa ha stabilito ottimi rapporti con i pazienti e mi ha aiutato molto nel rassicurare e confortare le pazienti, sia prima che dopo gli interventi. Con me ha lavorato una giovane collega di Cotonou molto brava ed "avida" di conoscenza specialistica e operatoria. Ho portato a buon fine vari interventi chirurgici, alcuni davvero complessi e difficili sempre a causa delle tante infezioni in atto. La mia esperienza è stata comunque utile perché mi ha permesso di risolvere situazioni che in 40 anni di interventi in Italia non avevo ancora visto.
Tutto bene quindi? Non proprio tutto. A marzo il caldo è veramente "africano": 45-47 gradi di temperatura ed un lavoro di nove-dieci ore al giorno sono pesanti da reggere. L’ambiente a N’Dali è tribale, l’ospedale è fuori dal paese e, quindi, abbiamo vissuto per quattro settimane solo a contatto con la popolazione ospedaliera e con il loro dolore. Ci si accorge che l’anima in queste situazioni è l’unica saggia consigliera e la si ascolta con gratitudine. È stata per noi, una grande esperienza che forse ripeteremo anche se in una stagione diversa e ci auguriamo che molti altri la vogliano fare.

Dario Sotto Corona

Nelle foto, il dott. Sotto Corona e la signora Maria Adelaide a N'Dali
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