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23.11.2006

I diritti dei “bambini invisibili”

Non molti giorni fa in un villaggio africano ho incontrato un bambino. Aveva dieci anni. Me lo ha presentato uno zio dicendo che il piccolo è il nipote di un griot (un cantastorie) e sa raccontare le favole.

Il bambino è arrivato con un fratello ed un cugino e timido, lo sguardo fisso sulla polvere che smuoveva coi piedi scalzi, ha cominciato a raccontare. Conosceva ogni battuta, si soffermava su ogni sfumatura. Lo zio sorrideva orgoglioso. Gli altri bambini lo stavano ad ascoltare ammirati. Nessuno di noi credeva alle sue orecchie. Ebbene quel bambino non è mai andato a scuola e, a quanto sembra, non ci potrà mai andare. La sua famiglia non può permettersi le piccole (per noi) spese necessarie all’iscrizione e al corredo scolastico e lui, oltretutto, deve dare una mano a zappare la terra.

Ecco un esempio illuminante quanto triste di diritti negati. In questi giorni si ricorda con varie iniziative la ricorrenza della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (la Giornata dei diritti dei bambini si celebra il 20 novembre), approvata diciassette anni fa da tutti i Paesi del mondo (tranne Stati Uniti e Somalia). Il documento ha lo scopo di impegnare i governi, proporzionatamente alle proprie possibilità e, in un certo senso, al proprio grado di “sviluppo”, a garantire ai bambini, che rappresentano il futuro delle varie nazioni, quegli elementi materiali ed immateriali necessari a diventare adulti nel migliore dei modi.

L’opinione unanime di chi si occupa di queste cose è che il cammino da fare per dare attuazione alla Convenzione è ancora molto lungo. Non si tratta naturalmente solo di garantire il diritto all’istruzione al nostro narratore di favole e ai suoi fratelli. Il primo diritto che non è per nulla garantito è il diritto alla vita. Secondo i dati forniti dalle organizzazioni internazionali ogni sette secondi nel mondo un bambino muore per fame (meglio: per le conseguenze legate ad una alimentazione inadeguata o insufficiente). Ogni sette secondi. Il dato è talmente enorme, purtroppo, da lasciarci pressoché indifferenti. Eppure in molti casi basterebbe davvero poco per risolvere situazioni che conducono le persone più deboli (tra queste i minori) direttamente alla morte.

Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Unicef i bambini nel mondo cui sono attualmente negati i diritti sanciti dalla Convenzione sarebbero un miliardo. E la metà dei bambini del mondo cresce afflitta da fame e malattie. Altri dati: più del 16 per cento dei bambini sotto i cinque anni, nei paesi in via di sviluppo, soffre per grave malnutrizione; circa 400 milioni di bambini non hanno accesso all’acqua potabile (soprattutto nell’Africa Subsahariana); oltre mezzo miliardo di bambini non ha accesso ad alcun servizio igienico; circa 270 milioni di bambini non godono di nessun tipo di assistenza medica; un bambino su quattro nei paesi in via di sviluppo non riceve nessun tipo di vaccinazione; 640 milioni di bambini sono praticamente senza casa; più di 100 milioni di bambini (soprattutto bambine) tra 7 e 18 anni non sono mai andati a scuola; 300 milioni di bambini non conoscono fonti di informazione come radio, televisione, telefono o giornali.

A questi dati vanno aggiunte due categorie specifiche: sono i bambini coinvolti anche direttamente (come piccoli soldati) nei conflitti armati che continuano ad insanguinare il pianeta; sono i bambini che soffrono delle conseguenze dell’Aids perché malati o orfani. Sono quelli che il presidente dell’Unicef Italia, Antonio Sclavi, definisce “bambini invisibili”. “Il mondodiceè pieno di bambini invisibili, vittime di emergenze dimenticate. Si stima che siano almeno 50 milioni i piccoli che non vengono neppure registrati all’anagrafe, oltre 100 milioni i bambini che non hanno mai visto un’aula scolastica, centinaia di migliaia le vittime di catastrofi naturali o guerre che non hanno la paradossale fortuna di finire sotto i riflettori dei media. L’invisibilità non è una condizione eccezionale, è la norma per troppi drammi che riguardano l’infanzia”.

L’invisibilità è, tutto sommato, anche una comoda scusa per chi non vuole comunque vedere.

Paolo Valente

 

 

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